Strano paese il Bhutan, e decisamente affascinante oltre ogni immaginazione, specie per noi occidentali. Grande poco più della Svizzera, ma con non più di 700 mila abitanti e una delle più basse densità della terra, questo regno montuoso di contadini e di pastori si trova al centro nel settore orientale della catena himalayana, schiacciato tra il Tibet cinese a nord e l’India su tutti gli altri lati. Fino agli anni 70 era una delle nazioni più isolate e inaccessibili del pianeta, fermo ad un Medioevo feudale: non c’erano strade né aeroporti, per accedervi occorreva un invito personale del re, non possedeva moneta, telefoni, scuole, ospedali, poste, alberghi, televisione e tante altre cose per noi usuali. Poi un giovane sovrano colto e illuminato nel giro di qualche decennio ha modificato decisamente la situazione: oggi il 90 % della popolazione ha accesso gratuito alla sanità, il 78 all’acqua potabile, l’ 88 alla rete fognaria e via discorrendo, con parametri sociali da primato in Asia. Ma con una preoccupazione di fondo: non snaturare in alcun modo l’identità culturale del paese, basata sull’habitat, sulle tradizioni ancestrali e sulla religione. Una crescita prudente e controllata, un piede nel presente, ma senza rinunciare al passato. I monaci ora trascrivono il sacri testi sui computer, ci sono internet e i telefonini ma i giovani si divertono ancora con il tiro con l’arco, lo sport nazionale, e non si perdono gli tsechu, le coreografiche feste religiose e popolari vecchie di secoli. Secondo i parametri internazionali basati sul Pil (prodotto interno lordo, cioè la ricchezza materiale), il Bhutan è un paese povero, anzi tra i più poveri del pianeta. Visitandolo non si ricava una simile impressione: qui nessuno patisce la fame, non si incontrano mendicanti né persone indigenti, la criminalità risulta pressoché assente e sui volti delle persone si legge una serafica felicità. La spiegazione risiede nei parametri adottati. I butanesi infatti, popolo impregnato di spiritualità e di misticismo religioso che noi nemmeno riusciamo ad immaginare, ragionano in maniera completamente diversa dalla nostra, con priorità e valori del tutto differenti, tanto da aver sostituito il Pil con il Fil (Felicità interna lorda). Questa sigla pone la persona al centro dello sviluppo, riconoscendo che l’individuo ha sì bisogni materiali, ma prima ancora spirituali ed emozionali; il miglioramento degli standard di vita deve comprendere il benessere interiore, i valori culturali e la protezione dell’ambiente, mentre lo sviluppo deve puntare ad aumentare la felicità delle persone, piuttosto che la crescita economica. Il paese, ad esempio, possiede enormi risorse forestali, che per legge non possono scendere sotto il 60 % del territorio, ma nessuno si sogna di tagliare alberi, così come nessuno può possedere più di 20 ettari di terreno. I bhutanesi diffidano della ricchezza perché temono i danni che potrebbero derivare alle loro tradizioni culturali. Provate a dirlo nel resto del mondo.

Alcuni aspetti potrebbero far pensare al Bhutan come ad un’appendice meridionale del Tibet: infatti la popolazione è di etnia tibetana, la lingua dzongkha è uno dei dialetti tibetani, la religione sembra la stessa (in realtà è diversa) e lo stesso nome Tibet potrebbe derivare da una storpiatura di To Both = alto Bhutan, ma le analogie finiscono qui perché il Bhutan è un’altra cosa. Esistono tre zone geografiche e climatiche differenziate: a nord le vette himalayane alte fino a 7.500 m e con il 20 % di nevi perenni con clima e vegetazione alpina, al centro erte montagne segmentate da profonde vallate difficili da superare ricoperte da foreste temperate, a sud colline e pianure quasi a livello del mare dal clima tropicale; il tutto in uno spazio di appena 150 km. Questa rilevante varietà ambientale produce anche notevoli differenze in termini di flora, fauna ed ecosistemi, tanto da poterla considerare una nazione chiave per la salvaguardia della diversità biologica mondiale, con l’aggiunta di possedere alcune delle più antiche specie vegetali della terra. Le foreste ricoprono il 72 % del territorio con 5 mila specie di piante, 300 di erbe medicinali e 457 di funghi, 165 mammiferi con specie rare come hangar dorato, leopardo delle nevi panda rosso e tigri, 675 varietà di uccelli; oltre un quarto del territorio risulta protetto, caccia e bracconaggio inconcepibili. Addirittura è l’unico posto al mondo a possedere una riserva per preservare l’habitat dello yeti, l’abominevole uomo delle nevi coperto di peli e con i piedi al contrario, capace di rendersi invisibile. Alla cui esistenza credono quanto a quella degli spiriti maligni, tanto che ogni casa possiede un acchiappafantasmi per intrappolarli e sulle pareti esterne campeggiano enormi falli come segno di prosperità. I principi della filosofia e dell’etica buddista mahayana, che predicano la moderazione e il distacco dalle passioni terrene per raggiungere l’illuminazione, permeano ogni attimo di vita dei butanesi, e ogni famiglia si vanta di avere un figlio monaco. I butanesi sono persone semplici, tranquille e serene, piuttosto egualitari e senza privilegi di censo o di casta, identici anche nell’indossare l’abito tradizionale ogni giorno; grazie all’isolamento ambientale e al loro carattere fiero, sono l’unico popolo della regione indiana a non aver mai subito invasioni o domini stranieri. Ovunque il paesaggio risulta dominato dagli dzong (ce ne sono 1.300, con 6 mila monaci), imponenti costruzioni situate in punti strategici nello stesso tempo monasteri, templi, fortezze militari e centri amministrativi, che da sempre svolgono un’imprescindibile controllo sul territorio. Esiste poi una quantità incredibile di edifici religiosi: i goemba sono monasteri buddisti ubicati spesso in luoghi appartati e di non facile accesso, contenenti uno o più templi con le cappelle di preghiera, gli altari e le statue delle divinità. Infine i chorten sono dei piccoli stupa presenti un po’ ovunque, contenenti reliquie e luoghi di preghiera e di offerte. Gran parte degli dzong e dei monasteri organizzano una grande festa annuale, le quali costituiscono momenti di intensa suggestione scenografica e di aggregazione sociale, con musiche, danze, canti, rappresentazioni teatrali, cerimonie religiose, preghiere, processioni votive, benedizioni e mercatini, che durano tre giorni dall’alba al pomeriggio, il tutto al suono di tamburi, gong, trombe e cimbali. Dato il loro elevato numero, in ogni momento dell’anno se ne svolgono diversi in contemporanea. Un’unica avvertenza per i potenziali visitatori: se siete fumatori scordatevi di poter andare in Bhutan, perché dal 2004 – primo paese al mondo – è vietato fumare ovunque.

L’operatore milanese “I Viaggi di Maurizio Levi”  www.viaggilevi.com, specializzato in turismo culturale a valenza etnografica, propone in Bhutan un originale itinerario di 13 giorni dedicato alle regioni centro-occidentali, in occasione dei principali festival religiosi. Partenze individuali settimanali con guide locali di lingua inglese, oppure mensili di gruppo con voli di linea Turkish Airlines da Milano (e da altri aeroporti) da ottobre a marzo 2016, pernottamenti nei migliori hotel esistenti con pensione completa, accompagnatore dall’Italia, quote da 3.300 euro in doppia.

Giulio Badini

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